Il canto delle farfalle

Cosa che donna brama io non intendo:

se finge o s’è verace;

dello scoprir di lei capace

non sono, seppur giammai m’arrendo.

È l’animo più fondo da scoprire

ma nulla io dirò d’irripetibile,

nulla che voler nasconda o non sia udibile,

nel quieto eloquiar di chi fa il mondo aulire.

Spicco un gran balzo, e perché mai?

Ecco, s’accende la voglia di lei;

da parco a pugnace tu il core mi fai.

Chi mai da te può restar separato?

‘sì bella ai miei occhi una favola sei,

e l’uomo son novo, quel vecchio s’è andato.

I buoni parenti si allegrano tosto

e gli amici s’accostan curiosi di già;

la mia anima e un’aura che vola e che va,

ma che non siede ancora, perché non trova posto.

Cosa mai viene appresso follemente l’ignori.

Tu vuoi vivere adesso, quel che poscia sarà.

A te stesso tu credi con fermezza e lealtà.

Un giudizio sia mai che tu voglia da fori.

Musicanti non vedo, ma li sento sonare

sulla verde terrazza del settimo piano;

anche note più ascose mi son presto svelate.

Su li tetti la notte come glauca a mirare,

Ferragosto di stelle quasi nulle vediamo.

Stringo forte il mio ben, chissà mai che veniate.

Note ritmando salgono.

Ben odo io l’eco. E il furor d’amar pervade;

complici a desiar le poche stelle rade,

di lei prendo a baciar in baldanzoso modo.

Anime pure! L’amor non vi macchia

se drudi non siete, e ‘sì ve ne state

come duglie abbracciate nell’estate

che incanta a gustarvi di bacchia.

Corolla spogliata, mio fiore vermiglio;

di dolci parole all’orecchio sussurri,

come fonte le sgorghi sul caldo giaciglio.

Poi l’amor tu ricusi con fredda protervia,

come l’onda che schiva, alla sabbia vi abiurri,

e il vento a mutar, soffi solo superbia.

Oh voi che fate dell’amor gran dono!

Che avete in comunion grandi risorse

proclive al motteggiar chi a di voi prono

di vostre pie beltà non metta in forse.

Regine d’amor che vestite a gran festa

e per le trame delle palpebre a scrutar

se chi v’appunta è degno, a voi mirar

per successione al trono in vostra destra.

Romanticar non credo a bella posta,

ma di sogni a pindar vi vedo;

nell’opra a valutar chi a voi s’attesta.

Ma io disprezzerò chi bieco s’accosta

al tuo gineceo; sordido lo credo,

che come un foco vano a colpir s’appresta.

Musa non odo in aura gentile

aleggiar su di me; carnéade sono,

or che spoglio di te m’hai fatto dono,

altro Pluto ora c’è come ilota a servire.

Nell’obliar di veste bianca s’ammanta,

ove il vischio ha serrato di tutte sue fronde;

s’ottunde il suo mal tra il fragor de l’onde

e Proserpina ostenta, di sua vision l’incanta.

Luminose e rubizze come ninfe,

sulle strade riversate in sciami;

come api ronzate per attirare i fuchi.

D’emozioni smaniose a sugger linfe,

a navigar la brezza e dai cordami

slacciar tristezza invisa, or fatte bruchi.

Il canto delle farfalle
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